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Médée, primo saggio del giovane Corneille nell’ambito della tragedia, quasi un lavoro preparatorio ai successivi Cid, Horace e Polyeucte, con i quali si imporrà quale indiscusso protagonista del Grand Siècle. Si è concordi nel riconoscere in Seneca la fonte principale della sua Médée, come egli stesso riconosce nell’Examen della tragedia. Tuttavia, contrariamente a Seneca, egli sfuma il lato demoniaco di Medea, restituendone l’immagine euripidea di sposa ferita, che solo sul finale acquisisce un lato mostruoso, benché le sue azioni vendicative appaiano più comprensibili agli occhi degli spettatori, dati gli intrighi iniqui di Giasone, sposo infedele, e dei sovrani di Corinto di cui è vittima. Giasone è la misera incarnazione della vanità e dell’orgoglio, e Creusa, figlia del re di Corinto, è così impertinente da chiedere, e quasi pretendere, la veste regale di Medea, dopo che ne è stato decretato l’esilio. Corneille riprende alcuni ingredienti spettacolari del teatro senechiano, rappresentando la morte dei sovrani di Corinto sulla scena, ma si astiene dal visualizzare l’infanticidio, sconveniente per il teatro delle bienséances, evocandolo, quasi sterilizzato, con soli quattro versi nel discorso ultimo di Medea a Giasone. Infine, un epilogo originale rispetto alla tradizione: un suicidio di una certa opacità, silenzioso e privo di qualsiasi solennità.
Saggi e micro-saggi su Dessí, Rosso, Pomilio, Sciascia
ebook € 4,99Si può sempre ricostruire un contesto, una specie di commune letteraria, anche solo in virtù di un’invenzione birichina – gli anni dispari di narrativa Sessanta per l’appunto – e rilanciare una curiosità vitale esteriormente, fisicamente dispersiva, tra luci e suoni, dalla Sardegna alla Sicilia, accogliendo poi storia e geografia di altre regioni e città del nostro, plurale paese, e in particolare quelle degli Abruzzi e di Firenze e di Trieste (e Trento).
Cura e traduzione di Agnese Silvestri
Cosa accade se a suscitare una passione inesauribile per un essere dalla morale riprovevole è un uomo piuttosto che una donna, come era stato il caso della Manon Lescaut dell’abbé Prévost? È questo interrogativo a innescare in George Sand, allora coinvolta nel turbinio di emozioni della sua storia travagliata con Alfred de Musset, la scintilla creativa di Leone Leoni (1835). Nascono così i personaggi di Juliette e di Leone, lei incantevole figlia di un gioielliere di Bruxelles, cresciuta nella fatuità e nella frivolezza riservate alle ragazze di buona famiglia nei primi decenni dell’Ottocento; lui fascinoso nobile veneziano, dedito al gioco d’azzardo e alla truffa, pieno di debiti ma dalla vita sociale brillante, grandiosa e debosciata. Non lo nota neanche, Juliette, incontrandolo per la prima volta sulla propria strada. Ma l’ingenuità della prima giovinezza, la fondamentale immoralità di un’educazione che le toglie, invece di assicurarle, consapevolezza di sé e del mondo, la bonaria superficialità della famiglia dell’eroina, che non manca di coltivare ambizioni di ascesa sociale, la precipitano in una passione tanto rovinosa quanto inebriante. Trascinata da Leone in una tormentosa peregrinazione tra luoghi diversi e situazioni sempre più avvilenti, si aprono per Juliette abissi di umiliazione, ma anche ambigui spazi di libertà e di rivolta.
Noto in particolare per i suoi due romanzi Erewhon e The Way of All Fresh, Samuel Butler è stato uno scrittore inglese di epoca vittoriana. Personalità poliedrica, oltre che scrittore, fu pittore, musicista, fotografo, filosofo, critico e storico dell’arte, “divulgatore” scientifico, e perfino allevatore di pecore. “Controverso” è l’attributo più ricorrente quando si cerchi di definire chi, come lui, si è compiaciuto di autoproclamarsi un outsider. E di una controversia tratta questo saggio: quella con Charles Darwin, il “padre della teoria dell’evoluzione”.
«Sì, non fidatevene, perché c’è un corbaccio rampante abbellito con le nostre piume, che con il suo “cuore di tigre avvolto in una pelle d’attore” presume di essere altrettanto capace quanto il migliore di voi di infarcire versi sciolti, ed essendo un factotum senza pari si ritiene nella sua presunzione l’unico Scuoti-scena del paese…» è uno tra i brani più citati dagli studiosi di Shakespeare, che vedono nell’astio del suo autore la prova del successo e della fama del drammaturgo di Stratford sin dagli albori della carriera londinese. Siamo nel 1592, il poligrafo di successo Robert Greene, negli ultimi istanti di vita, scrive il suo Groats-worth of Witte Bought with a Million of Repentance (Un soldo di senno al prezzo di un salatissimo pentimento), un testo di grande varietà di generi e registri nel quale la novella tipicamente rinascimentale costituente il grosso della narrazione – riscrittura in chiave parodica della parabola del figliol prodigo con protagonisti un usuraio, i suoi due figli e una cortigiana senza scrupoli – lascia spazio ad alcune pagine in cui l’autore, togliendosi la maschera fittizia e rivolgendosi direttamene ad amici e colleghi – “A quei gentiluomini, conoscenze di vecchia data (Christopher Marlowe, Thomas Nashe, George Peele?), che dedicano il loro ingegno a comporre drammi, R. G. augura un migliore esercizio e la saggezza per prevenire i suoi stessi eccessi” –, esce allo scoperto per parlare di sé stesso e della propria dissipatezza. Al di là dell’aspetto penitenziale espresso sin dal titolo del libello, queste parti di Groats-worth of Witte rivestono un notevole valore dal punto di vista storico-letterario perché offrono uno spaccato del teatro elisabettiano dal suo interno, riportando precise notizie su come lavoravano i drammaturghi, su quale era il loro rapporto con gli attori, sul loro ruolo all’interno delle compagnie, sui loro problemi di carattere finanziario… Si tratta di informazioni importanti per la conoscenza di quel mondo che, al di là di tutto, vista la scarsità di documentazione fin qui pervenutaci, è sempre vissuto in un’indeterminatezza mista a finzione.
SOCIETA’, MUSICA E SENTIMENTI A RIO DE JANEIRO
Edizione italiana a cura di Chiara Vangelista
«Al Little Club Dolores Duran stava seduta, la chitarra in braccio e un foglio di carta di fronte. Come sempre, stava scrivendo con la matita per le sopracciglia». Una storia della Rio de Janeiro degli anni Quaranta e Cinquanta, attraverso la musica, la radio, le donne, gli uomini, gli amori: in una parola, il samba.
Il teatro e il cinema nella loro valenza politica, intesi come Arti che aiutano a capire e a trasformare il mondo, sono l’oggetto dei saggi contenuti in questo libro. Rodrigo de Freitas Costa, Rosangela Patriota, Alcides Freire Ramos e Fulvia Zega indagano sul dialogo intenso tra Europa e America, che per gran parte del Ventesimo secolo ha plasmato la produzione e i percorsi di vita di tanti autori, registi e attori dei due continenti.
Sono riunite, qui, pagine critiche di argomento siciliano riconducibili sia ad alcuni dei temi, non soltanto i principali, che hanno scandito la quasi cinquantennale ricerca accademica dell’Autore, ormai conclusa, sia ai “valori di vita provinciale” a cui egli è sempre rimasto fedele, pur evitando, con scrupolo, ogni angustia municipalistica e coltivando, anzi, la più viva e tenace curiosità per le sperimentazioni letterarie e artistiche più avanzate, nazionali ed estere. Anche per questo, soprattutto nella seconda parte del volume, si ripropongono degli interventi che, al di là della loro intrinseca rilevanza, possono documentare un fervore di cultura per il quale, in passato, la provincia iblea e Comiso, particolarmente, il paese dove l’Autore è nato e vissuto, si sono distinti (attraverso figure d’intellettuali, riviste, iniziative editoriali, d’arte, ecc.) e che oggi, purtroppo, sembra essersi spento o appannato. Nella speranza che le giovani generazioni vogliano e sappiano recuperarlo e rilanciarlo, magari innovandolo profondamente.
Dialogo e poesia in Dante, Brunetto e Boccaccio
Uno dei modi privilegiati attraverso cui i personaggi di un’opera letteraria prendono corpo e acquisiscono realtà è la rappresentazione diretta dei loro discorsi: i dialoghi ci restituiscono, attraverso la mimesi delle sue parole, la voce del personaggio. Il presente volume studia la costruzione del sistema dialogico nel poema dantesco e mette poi a confronto la peculiare struttura drammatica della Commedia con quella di opere come il Tesoretto di Brunetto Latini e la Caccia di Diana e l’Amorosa visione di Boccaccio, due autori uniti a Dante da molteplici legami storico-letterari.
Si dice elzevirismo e subito si pensa al prezioso laboratorio formale di matrice rondesca, allo scintillante calligrafismo di un Antonio Baldini, di un Bruno Barilli, di un Emilio Cecchi. La tradizione dell’elzeviro non si lascia rinchiudere, però, nel perimetro esclusivo della “prosa d’arte” degli anni Venti e Trenta: bastino nomi come Benedetto Croce, Arrigo Cajumi, Rosario Assunto, Giorgio Manganelli, Italo Calvino – giusta la minima, embrionale mappa abbozzata dal Convegno di cui in questo volume si pubblicano gli Atti – per rendersi conto della funzione educativa (laica, umanistica…) svolta a lungo, prima e dopo, dalla migliore intellettualità italiana attraverso la “terza pagina” dei giornali, quasi una libera cattedra di civiltà. Rispetto alla linea elzeviristica più propriamente legata alla “prosa d’arte”, del resto, al di là dei pregiudizi che, da Borgese a Moravia alla critica engagée del secondo dopoguerra, ne hanno accreditato l’immagine d’un “bello scrivere” fine a sé stesso, vacuo e provinciale, magari colluso col fascismo, è lecito un supplemento d’indagine, una qualche revisione. Il caso di Gesualdo Bufalino, appunto, allo scadere del secolo scorso, dimostra retrospettivamente (un po’ come Gadda con l’espressionismo scapigliato nell’interpretazione di Contini) che quella lezione non era così effimera e autoreferenziale quanto s’è voluto credere: attiva nello scrittore siciliano già nelle fasi più remote della sua sofisticata “anagrafe” intellettuale e contaminandosi, via via, con infiniti altri pimenti culturali, essa ha contribuito − nel saggista, nell’autore di aforismi, nel narratore − alla nascita d’uno stile «insieme esuberante e contratto», di un “tono” inconfondibile, fantasioso, ironico, brillantemente iperletterario, inquieto e pensoso.
A vent’anni dalla sua scomparsa, è il caso di riconoscere a Gesualdo Bufalino narratore, poeta, saggista, traduttore, autore di aforismi ─un posto di assoluto rilievo nel canone letterario, non solo italiano, del Novecento. Il posto che spetta agli scrittori grandi, “necessari”, a coloro che, oltre a inventare un “tono” inconfondibile, a dar voce a possibilità ancora inesplorate e inedite del linguaggio, hanno saputo porsi le domande inderogabili, esprimere i dubbi cruciali dell’esistenza. Lo stesso modo d’essere, disincantato e umbratile, dell’intellettuale Bufalino, più che un limite, appare, oggi, un vantaggio, una specola privilegiata che gli consentì d’attraversare indenne il periodo di forte contrapposizione ideologica del secondo dopoguerra e di presentarsi al pubblico, sia pure tardivamente, al giro di boa degli anni Ottanta, con le carte in regola, privo di certezze vecchie e nuove, per tornare a dire, in un contesto culturale disposto finalmente ad accoglierla, la propria verità ─a lungo tenuta al sicuro sotto la lingua, da moralista acre e “malpensante” qual egli era. Una verità che, nel fare i conti con i veleni del “secolo breve”, con i suoi turbamenti, privilegia la dialettica dell’io con sé stesso rispetto a quella dell’io con la società, percepibile solo sullo sfondo e si affida a una scrittura assai sofisticata, iperletteraria, immaginosa, disposta a sconfinare di continuo in altri ambiti (dalle arti figurative al cinema, dalla musica al gioco degli scacchi…), a impregnarsi di altri umori nel tentativo, grazie ai sortilegi della parola, di “popolare il deserto”, di trasformare la “vista” in “visione” e persino in “visibilio”, attingendo anche alla memoria per ridare una fittizia ma vivida durata a uomini e cose che il tempo ha cancellato e cancella.
Parlare di Elio Vittorini significa anzitutto fare i conti con una prodigiosa attività politico-culturale, con un frenetico alternarsi di progetti, di “furori” più o meno “astratti”, di idee consegnate ad immagini così folgoranti da bruciarsi quasi tutte nel breve periodo, nella fruizione immediata da parte delle élite intellettuali succedutesi nell’arco di quasi quattro decenni della nostra storia. Significa, dunque, fare i conti con questa storia e restituirne uno spaccato il più possibile significativo, ma soprattutto con una rigogliosa vegetazione di metafore, con un tessuto simbolico ordito tra il mondo arcaico e incontaminato delle dee-Madri e gl’interminati spazi della “frontiera”, tra i “nuovi doveri” del dopoguerra e il favoloso firmamento delle “città del mondo”. In appendice un omaggio di Leonardo Sciascia a Vittorini, all’intellettuale libero che scriveva per gli umili e fieri Boccadutri e per dare «una risposta al Giappone di ognuno». Ed è questo, in fin dei conti, il Vittorini che nel cinquantesimo anniversario della scomparsa sarebbe bello consegnare, con tutto il gravoso carico dei suoi “astratti”, implacati e più che mai attuali “furori”, alle giovani generazioni. Un Vittorini “a cavallo”, come il nonno socialista di Conversazione in Sicilia, come la Madonna del Garofano rosso e l’altrettanto battagliera “garibaldina”, come i contadini che nelle Città del mondo s’avviano a occupare le terre. E fieramente a cavallo dei suoi tempi, disposto a soccombere alla loro effimera durata, ma pronto a rimettersi in sella per inseguire e guidare altre fasi, generazioni, aspirazioni. A combattere; forse a vincere, nei tempi che verranno.
L’ermeneutica è per sua intima natura una disciplina ‘plurale’. Essa incarna infatti il senso di quel ‘prospettarsi’ sul mondo che coincide con il nostro stesso esserci. Il cardine di questa galleria di sguardi è il corpo. Provare a immergere questo pensiero nell’acqua della letteratura, della poesia e della critica che segnano la cultura dell’Occidente vuol dire scommettere sul potere di novità insito nel quotidiano, nel comune, in ciò che appartiene a tutti.
A cura di Nunzio Zago – Alessandra Schininà – Giuseppe Traina
Si raccolgono qui gli atti di un convegno su Angelo Maria Ripellino e altri ulissidi, svoltosi presso la Struttura Didattica Speciale di Lingue e letterature straniere di Ragusa (6-7 aprile 2016), che rientra in una più ampia ricerca sull’ulissismo intellettuale dall’Ottocento a oggi finanziata dall’Università degli Studi di Catania (FIR 2014). La scelta di dedicare una particolare riflessione alla figura e all’opera di Ripellino nasce dal fatto che egli, sotto vari riguardi, sperimentò e incarnò esemplarmente la condizione dell’ulisside intesa in modo non restrittivo: come intellettuale siciliano «in fuga», cosmopolita ma anche nostalgico, seppur non acriticamente, delle origini lontane; come grande slavista e raffinato interprete della Mitteleuropa, dei suoi plurimi e accidentati percorsi non solo culturali; come traduttore e come poeta in proprio, che della lingua materna e delle tante altre possedute a dovizia si servì quali tramiti preziosi e avventurosi di conoscenza, dialogo e libertà fantastica.
Interventi di: Rita Giuliani | Nunzio Zago | Umberto Brunetti | Giuseppe Traina | Edoardo Camassa | Alessandra Schininà | Giuseppe Dolei | Beatrice Talamo | Paola Gheri | Arturo Larcati
Le figure femminili ne Il Re di Torrismondo
Il volume studia le figure femminili de Il Re Torrismondo seguendo tre temi principali: la verità, l’amore, la responsabilità. Le donne nella tragedia tassiana sono depositarie di una forte autonomia e individualità, che le porta a illudersi, a commettere diversi errori, a soffrire. Nel corso del dramma scoprono che conoscere la verità e agire in nome dell’amore sono spesso le fonti principali delle sofferenze e della morte. Lo scrittore mette così in scena una serie di personaggi, come Alvida e la sua nutrice, incapaci di ricomporre e dare un senso pieno alla vita. La speranza di potersi autodeterminare porta Rosmonda a costruire un mondo alternativo alquanto insidioso, mentre Rusilla, presentata come ferma e costante, giunge in breve tempo a contraddirsi. Il saggio, che si basa sulla ricerca intertestuale e sull’esame dello stile di scrittura tassiano per cogliere i paradigmi distintivi della letteratura del Classicismo cinquecentesco, mette in stretta relazione il Torrismondo e la Tragedia non finita con altre opere dello scrittore e con le tragedie antiche e rinascimentali; i personaggi femminili sono altresì analizzati alla luce delle teorie sulla tragedia e della trattatistica sull’amore e sulla donna.
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